Un sabato sono uscito con un gruppo di spagnoli — amici di amici — i quali, ottemperando agli stereotipi più stantii, non ne volevano sapere di porre fine alla serata.
Siamo quindi andati prima a cena, poi in un locale, poi in un altro. Non sono mai stato un fan delle discoteche, ma ammetto che quei club non erano male. E con mio grande stupore erano pure gratis, a parte il guardaroba.
Bene. Fra una cosa e l’altra si fa tardino, perciò quando usciamo dal secondo locale mi sembra pacifico che la serata stia per volgere al termine. Stupendomi di riuscire a stare ancora sveglio, comincio a salutare tutti, ma senza aver fatto i conti con la natura iberica:
— Ah, quindi non vieni dallo spagnolo? Peccato, è un posto che merita di essere visto…
Un altro locale ancora?! Sul mio volto non si dipinge certo l’entusiasmo, ma a questo punto, fatto trenta, facciamo trentuno. Sennò poi mi resta la curiosità.
Ebbene: guadagnamo un vicolino giusto dietro una delle strade più centrali. Del locale non sembra esserci traccia, anzi in generale non ci sono segni di vita se non per un ragazzo che ha l’aria di passare di lì per caso, e che invece ci invita con fare complottista ad aspettare un po’ in disparte finché non si libera del posto:
— Al momento il locale è sovraffollato.
Possibile mai? D’altronde mentre aspettiamo continuano ad arrivare altri gruppetti di persone che vogliono entrare. Qualcuno prova pure a millantare conoscenze per saltare la fila.
Ad un certo punto si apre la porta, esce della gente: è il nostro turno. Il tizio mette fretta, non tiene volentieri la porta aperta. Entriamo in un corridoio buio e stretto, per terra c’è un po’ di fanghiglia. In fondo ci attende un allucinato Caronte che ci chiede 5 pound tondi per entrare. E qui già comincio a iastemare mentalmente visto che non avevo in programma di stare a lungo.
Dopo lo Stige, si scende ancora: il locale è nel basement, sottoterra. Le scale ci portano in questa terrificante stanza alta poco più di me e strapiena di persone. Dall’altra parte, se ci riesci ad arrivare senza violare il principio di impenetrabilità della materia, ci sarebbe il guardaroba (leggi: montarozzo di giacchetti) e il bar (leggi: due ragazze di fronte ad un frigorifero).
Durante questa traversata mi sovviene che forse sono lievemente claustrofobico. Comincio una sessione di training autogeno per calmarmi: caro Davide, se ti fai prendere dal panico è peggio, quindi stai tranquillo, “goditi” questo quarto d’ora, e celebra come si deve la scomparsa prematura delle tue cinque sterle. Ho già detto che si crepava dal caldo?
Mollato il giaccone, vedo in lontananza un altro vano apparentemente più arioso. Lo raggiungo con ostentata calma. Ecco: direi che questa è “la sala”. Una stanza completamente spoglia, c’è un po’ di fanghiglia anche qui, ma almeno è alta più di una persona e mezzo e la folla è meno pressata. Il deejay è un ragazzino con un portatile. Un’unica, attempata cassa si sobbarca il compito di far tremare le pareti.
In tutto ciò, in barba alla legge ma soprattutto al buon senso, la gente fuma. Anzi, immagino che la grande attrattiva del posto sia proprio quella. A tratti ho l’impulso di prendere a schiaffi uno a caso degli spagnoli che mi hanno portato lì, ma la pura razionalità mi fa tenere presente che una rissa in quel posto non sarebbe il caso.
Dopo un quarto d’ora me ne vado. Appena fuori, mi dico: sono salvo. Mentre torno a casa a piedi mi viene quasi da ridere pensando al masochismo umano.