Una delle cose che la vita mi ha insegnato è: diffida da religioni, ristoranti e romanzi provvisti di marchio registrato.
È per questo, immagino, che sulle prime guardavo con scetticismo la catena di paninoteche Eat., i cui punti vendita sono pressoché ovunque in UK.
Certo, è difficile restare impassibili di fronte alla genialità del branding: già il nome, questo invito perentorio con tanto di punto, non scherza; la dicitura “The Real Food Company”, poi, completa il quadro di autoironica arroganza.
Fortunatamente la vita mi ha insegnato anche a non essere rigido con le mie stesse regole, sennò non avrei letto Harry Potter. Pertanto non ho opposto molta resistenza la volta che il Prof mi ha proposto di fare pranzo là.
Devo dire che sono rimasto molto colpito. Semplicemente vendono sì panini, ma con un’ampia e variegata scelta e si sforzano di farli decentemente salutari: ognuno ha un mix diverso di ingredienti e il suo pane ben preciso, addirittura sfornato in loco — e si sente. Tutti i panini vengono fatti a mano la mattina stessa e quando finiscono finiscono. Ci credo perché la sera tardi se spii dalla vetrina vedi che è arrivato il carico di verdure fresche per il giorno dopo.
In seguito ho scoperto Pret A Manger, che è la catena rivale, e mi sono innamorato ancora di più. A parte che anche qui il franchising raggiunge vette di cura impensabili, con le rifiniture in metallo da tavola calda degli anni ‘50 — tanto che ogni volta mi sembra di entrare in un quadro iperrealista.
Loro aggiungono poi anche quel tocco che piace tanto alla middle class, come l’attenzione all’ambiente, la beneficenza (i panini avanzati li distribuiscono alle mense dei poveri) e, addirittura, l’attenzione ai lavoratori che, a quanto è fieramente specificato sul materiale promozionale, sono “ben pagati”. Addirittura l’azienda si vanta di non avere ritmi di crescita vertiginosi e di non guadagnare uno stonfo — anche se comunque male non se la passano, visto che dove vai è dove ne trovi uno.