Stavolta mi ero preparato psicologicamente. La volta scorsa, invece, quando ero stato a Cambridge per la tesi, ci ero rimasto male. Infatti, almeno i primi tempi, mi capitava spesso di non venire capito quando parlavo. L’occhio sgranato, l’orecchio teso, l’espressione perplessa: “ma come parla questo qui?” sembravano chiedersi tutti. Francamente, non pensavo di essere messo così male con l’inglese. Poi, col tempo, le cose erano andate migliorando.
Ora invece è già un po’ che sto qui, e ci sto facendo caso: mai nessuno mi ha chiesto di ripetere una frase. Mi capiscono tutti a prima botta. So che non dipende da me, perché a volte mi rendo conto io stesso di pronunciare particolarmente male qualche parola, o di sbagliare qualche frase.
E dunque, signori miei, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio mistero.
Ma l’arcano, a ben pensare, è prontamente svelato. La mattina mi sveglio e in casa mi ritrovo, come ormai saprete, un gallese e un giapponese; la padrona di casa è russa; all’università, il mio professore è tedesco e fra i suoi studenti ci sono un coreano e un indiano, per non parlare di tutte le altre persone che bazzicano da quelle parti; gli autisti degli autobus sono di origini nordafricane; i minimarket sono gestiti in genere da pachistani o mediorientali; i ristoranti, se togliamo i pub, sono quasi tutti etnici, e se ci spostiamo sulle catene, sarei proprio curioso di sapere quando è stata l’ultima volta che un inglese ha lavorato da McDonald’s o da Starbucks; al supermercato, chi più ha etnie, più ne metta; e via dicendo.
Insomma, chi vive a Londra si abitua presto a sentire quotidianamente una pletora di accenti molto diversi, per cui il sottoscritto passa tranquillamente inosservato.