Qualche settimana fa sono stato a teatro. Purtroppo ho confuso l’orario di inizio della rappresentazione con l’orario al quale dovevo incontrarmi coi miei amici, e insomma sono arrivato in ritardo.
Di tre (3) minuti.
Le porte erano già chiuse e l’atrio era semideserto. Una maschera munita di walkie–talkie e auricolari vari mi indica velocemente di seguire un gruppetto di persone che vengono condotte nella “latecomers lounge”, ovverosia la saletta dei ritardatari.
Questa saletta non è altro che una stanzina con un po’ di poltrone disposte attorno ad un televisore che mostra immagini a circuito chiuso del palcoscenico. Quando entriamo sorprendentemente non siamo i primi, segno che bastavano pochi secondi di ritardo per finire là dentro.
A poco a poco continua ad arrivare gente. Mentre mi sto chiedendo se dovrò vedere tutto lo spettacolo così, si presenta la coordinatrice delle maschere, cartellina in una mano e ricevitori vari nell’altra, che con piglio militare ci dice:
— Signori, abbiamo diciotto minuti.
Dopo un po’ torna con un piccolo plotone: veniamo assegnati ad una maschera diversa a seconda del piano e dell’ingresso. Marciamo compatti e silenziosi, ognuno per la sua strada, mentre i secondi ticchettano — sembra di stare in una puntata di 24.
Veniamo disposti in fila presso i nostri rispettivi ingressi (questo teatro ne ha praticamente uno per fila), poi dopo qualche minuto arriva il segnale: c’è il cambio di scena, scatta l’applauso in sala. Le maschere, ricevuto l’ok via radio, ci aprono prontamente le porte e con le torce ci indicano i nostri posti nel buio. C’è appena il tempo di mormorare una sventagliata di “permesso” e “scusate”, poi quando finisce l’applauso e ricomincia la rappresentazione, tutti i ritardatari sono ai loro posti.
Non c’è che dire: un altro piano ben riuscito per il latecomers commando. Prossimamente nei migliori teatri.