Quando un gatto nero mi attraversa la strada, penso: “che bello!”. Quando c’è una scala appoggiata al muro faccio attenzione a non prendermi una secchiata di vernice in testa. Se mi si rompe uno specchio può partire un’imprecazione, ma è una reazione non limitata agli specchi. Se mi assegnano il posto 13 o 17, tutt’al più faccio caso al fatto che sono numeri primi. Infine, quando passa un corteo funebre, penso che alla gente in lutto non faccia piacere vedere i passanti che si agguantano i testicoli — e poi mi viene in mente l’aneddoto in cui l’autista del carro funebre dice “tanto vi porto anche con le palle spellate!”
Ciò detto, devo ammettere che negli ultimi anni sto via via estremizzando la pur sana abitudine a non dire gatto se non ce l’hai nel sacco, fino a sconfinare nell’irrazionalità più pura. Ormai ogni pensiero riguardante il futuro mi si origina nella testa preceduto da una lunghissima sequenza di periodi ipotetici: se tutto va bene, e se qui, e se là… Una forma patologica di scaramanzia.
Per questo, è con immenso piacere che posso finalmente annunciare in via ufficiale — per quei pochi che non ne hanno avuto conferma — che io ed Elisa passeremo il prossimo anno a Londra (e daje), senza nessun “se” davanti. E che cavolo.
Il ritardo con cui lo scrivo è dovuto a una settimana estenuante passata interamente alla ricerca dell’alloggio, impresa di cui darò conto a parte. Domani un po’ di scartoffie e poi finalmente avremo la casa nuova…
(Se tutto va bene, of course.)